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I promessi sposi, capolavoro senza tempo.

Writer's picture: Michela BilottaMichela Bilotta

Ebbene sì, lo ammetto: io adoro “I promessi Sposi”.

Proprio quel mattone che si è costretti a studiare di malavoglia a scuola, senza capirci molto per di più, in un susseguirsi di noiose descrizioni, addii ai monti imparati a memoria, panni sciacquati in Arno e un autore, il Manzoni, che non sembra brillare per simpatia.

Eppure …


Se I promessi Sposi sono da secoli considerati un capolavoro, un motivo, forse più di uno, deve pur esserci.

In realtà le ragioni sono molteplici, se solo si riesce per un attimo a dimenticare il tedioso romanzo studiato sui banchi di scuola e a immaginare un secolo, il Seicento, come un turbinio di colori, sfarzi, ampollosità, ricchi prepotenti, scellerati, violenti a cui fa da contraltare una massa di poveri, senza diritti, in balia dei “signori”.


E poi immaginate, quasi a fare da cerniera, personaggi comici e rocamboleschi come Don Abbondio, curato di campagna votato al culto personale del quieto vivere, pensate a cosa deve aver provato quando, in fondo alla stradina che percorre per tornare a casa, scorge due loschi figuri che, vedendolo, si danno di gomito e si avvicinano.

E da allora gli eventi si rincorrono vorticosamente, con falliti matrimoni e rapimenti, fughe, minacce, colpi di scena, separazioni, soprusi, vendette, terribili epidemie.


Drammaticamente indimenticabile la scena di Fra Cristoforo, umile frate, che osa recarsi nel castello di Don Rodrigo a minacciarlo, puntandogli un dito in faccia e provocando il terrore, immediatamente smorzato nell’arroganza, del nobile prepotente che, pur di non dar voce alla sua paura, gli afferra la mano e lo caccia via.


Adoro i Promessi Sposi perché lo trovo anche un romanzo di sferzante ironia.

D’altronde come non ridere con il Manzoni per la pettegola Perpetua che nessuno ha voluto, ma che continua a dire di aver rifiutato tutti i pretendenti? O per la rocambolesca descrizione del fallito tentativo di matrimonio a sorpresa, quando gli oppressi sembrano oppressori. Strepitosa la frecciata del Manzoni: “Renzo, che strepitava di notte in casa altrui, che vi s’era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l’apparenza di un oppressore;eppure, alla fin dei fatti era l’oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente ai fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo…voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo”.


Non è risparmiata dall’ironia neppure la folla, ad esempio quando assalta i forni distruggendoli, inducendo Renzo a chiedersi in quale modo pensi di poter ottenere il pane, avendo ora distrutto i forni: nei pozzi?


E adoro la scena dei due capponi, sballottati per tutto il tragitto che compie Renzo per andare dall’avvocato Azzeccagarbugli (non me ne vogliano gli avvocati, però che fantastico soprannome!), fino a quando il giovane torna a casa di Lucia e Manzoni ci dà un ultimo ragguaglio sulla situazione dei due volatili: “entrando con un volto dispettoso insieme e mortificato, gettò i capponi sur una tavola; e fu questa l’ultima triste vicenda delle povere bestie, per quel giorno”. E che dire di tutti i pasticci nei quali si trova Renzo quando scappa a Milano? Sullo sfondo, pagine così violente che si fa fatica a leggerle e che oggi troverebbero felicemente posto in un film dell’orrore: la peste, i cadaveri deformati che infestano le strade, gli untori, i monatti con i campanelli, la disperazione della gente, l’ indimenticabile lirismo della scena della madre di Cecilia…


Una nota a margine merita Lucia, questa figura femminile sempre tramandata come delicata e fragile, quasi ornamentale, e che, invece, ha una forza interiore incrollabile, capace di far convertire persino un uomo di violenza inusitata come l’Innominato, uno dei personaggi più affascinanti e suggestivi della letteratura di tutti i tempi. Meraviglioso il dialogo tra i due, con lei inginocchiata ai suoi piedi e lui tormentato da un rimorso a cui ancora non sa dare un nome, “quel demonio nascosto nel suo cuore”…


Che dire, infine, dell’agghiacciante racconto della Monaca di Monza e di quel terribile padre, che oggi non si esiterebbe a definire mostro?


Rileggere i Promessi Sposi a distanza di tempo, lontani dai banchi di scuola, sia come vedere il davanti di un arazzo di cui negli anni precedenti si è tessuto il retro e ammirarne finalmente lo spettacolare disegno.


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Chi sono

Mi chiamo Michela Bilotta, sono nata a Salerno, ma vivo da oltre dieci anni a Bruxelles, dove mi occupo di comunicazione e ufficio stampa. Ho pubblicato guide turistiche, racconti, manuali per concorsi a cattedra.  La Metrica dell'oltraggio è il mio primo romanzo.

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